Michele Galdieri e Totò

tratto dal programma di Bada che ti mangio , 1949


              

Per diventare « qualcuno» in questo bizzarro mondo, agitato anche dalla mania dei paragoni, sembra sia indispensabile presentare ad un certo momento, come ad un esame di maturità, per lo meno un attestato di rassomiglianza con un altro grosso « qualcuno » del presente o del" passato. Anche gli autorevoli critici svizzeri, commentando i recenti successi del nostro massimo attor comico del teatro leggero lo hanno accostato a Grock e a Charlie Chaplin.
Eppure, a pensarci bene, persino le celebri « bombette» che questi tre assi internazionali del « ridere ridere ridere» amano porsi sul capo, sono infinitamente diverse l'una dall'altra. Quale identità può notarsi fra le buffonate d'un clown, siano pure deliziose come quelle del grande Grock, che sono sempre astratte, che tutte nascono dal nulla per finire nel nulla, e le trovate comiche di Totò che invece nascono tutte da una osservazione intelligente e profonda delle debolezze umane? Chi non ricorda Totògagà, in galante colloquio con Anna Magnani-gagarella, in una sgangherata garçonnière con un pretenzioso bar installato in un comodino da notte?

Il gagà era a quel tempo un personaggio vero, vivo, preso da via Veneto e portato alla ribalta; sedotto da questa grottesca verità Totò se ne impadronì e trovò forse per la prima volta il coraggio di tradire la sua tradizionale redingote e di separarsi per qualche minuto dalla sua inconfondibile « bombetta ». Ma non volle indossare la sgargiante giacca a quadri che il costumista gli aveva preparata.

Era anche quella una verità ed egli doveva deformarla a suo modo. Nessun attore al mondo avrebbe mai pensato di impersonare un gagà senza vestirsi come un vero gagà. Totò invece rubò al suo cuoco la più lisa e striminzita giacchetta bianca, assolutamente fuori moda e sottrasse al guardaroba di sua moglie un rotondo cappellino di feltro, ma quando apparve alla ribalta, la sera, come un disegno animato, tracciato da un caricaturista feroce tutti compresero che più e meglio d'un critico tagliente egli scriveva in quel momento la definitiva stroncatura dei gagà.

Totò crea il personaggio per distruggerlo, ma prima ci gioca a lungo, con astuzia beffarda, con perfidia felina, come il gatto col topo. Poi lo attacca, lo spinge verso tutti gli angoli del ridicolo senza salvezza e lo aizza per umiliarlo subito dopo, poiché egli che sul teatro è nato e per il teatro vive, sa perfettamente che soltanto del succube la gente ride. Sembra a volte che egli-personaggio supplichi se stesso-Totò e implori « lasciami respirare, concedimi una piccola tregua ». Egli per qualche istante abbandona la sua preda. Esce dal personaggio e sgambetta, ballonzola felice, lanciando al pubblico quelle parlanti occhiate da sotto in su, come per dire: Avete visto come l'ho conciato? Ma non è abbastanza. Aspettate e vedrete. E rientra con violenza nei panni d'un gagà, d'un Orlando curioso, d'un Pinocchio, d'uno sci-sci caprese, d'un nevrastenico viaggiatore di vagone letto, per ricominciare il suo gioco più serrato, più sfrenato eccitandosi fino all'ebbrezza.

Ancora più inconsistente appare l'accostamento di Totò a Charlie Chaplin il quale va perfettamente d'accordo col formidabile personaggio che ha creato, tanto vero che appena ha tentato di soppiantarlo per mettersi a braccetto del cinico Monsieur Verdoux, pur avendo realizzato una stupenda opera d'arte, ha visto allontanarsi, deluse, tutte le folle del mondo, le quali vogliono bene soltanto all'amaro, sentimentale, vagabondo Charlot che puntualmente al finale d'ogni film sventola la candida bandiera del buon cuore. Totò che nella vita è sensibilissimo, tenero, appassionato, che se gli dici «Napoli» già fa gli occhi lustri, che quando canta a mezza voce le vecchie canzoni ci mette tanta amorosa dolcezza che ti fa tremare di commozione, e che gelosamente nasconde sotto la sua inimitabile potenza comica un talento drammatico altrettanto potente, ha sulla scena un vero terrore della svolte sentimentali.

Anni or sono, in una mia rivista, vincendo l'istintiva riluttanza egli accettò di recitare la parte d'un Dante impazzito di dolore, durante un suo ritorno sulla terra sconvolta. La scena, deviando dal grottesco iniziale, si faceva improvvisamente seria e si concludeva con alcune drammatiche battute. Il pubblico, sorpreso dalla straordinaria bravura di un così insolito Totò scattò alla fine in un entusiastico, prolungato applauso. Allora non era ancora di moda cronometrare la durata dei battimani, ma quello scrosciar di applausi sembrava davvero che non dovesse mai finire. Per due o tre rappresentazioni le cose andarono così, ma una sera Totò sentì il bisogno di scagliare un sasso contro il cristallo incantato che si levava fra lui e il pubblico, quasi vergognoso che qualcuno potesse leggergli nel cuore, e subito dopo la battuta drammatica fece echeggiare nella sala, silenziosa e commossa, un sonorissimo sberleffo. Fu un delirio.
La gente piangeva e rideva e gli gridava freneticamente: bravo. I puritani di professione non arricciarono il naso. Anch'essi, magari senza approfondirne il motivo, avevano capito che l'inatteso sberleffo, spoglio d'ogni volgarità, era stato soltanto l'eccentrica espressione di un nobilissimo pudore. Ecco Totò, che somiglia soltanto a se stesso e ad un austero Antenato che dalla parete del pricipesco salotto di casa De Curtis sorride soddisfatto.

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