Di Peppino Villani abbiamo detto: un asso di quei tempi. L'altro era Antonio de Curtis, un giovanottello ricco soltanto di molte speranze. Sì, insomma, ero io. Nato a Napoli in via Santa Maria Antasaecula, avevo trascorso la mia adolescenza piú nelle strade del popolare rione Sanità che sui banchi di scuola. Come abbia fatto a prendere la licenza elementare e ad iscrivermi al ginnasio, soltanto mia madre potrebbe dirlo. Scelsero il collegio Cimino, nel palazzo dei principi di Santobuono, ma io per la scuola non ero tagliato proprio. Le mie avventure di ginnasiale finirono assai presto, e ingloriosamente.
Né si può dire, per la verità, che le mie esperienze militari abbiano avuto un esito migliore. Ero poco piú che un ragazzo quando mi presentai, volontario, al Distretto. Fui assegnato al 22' fanteria, di stanza a Pisa, e quindi distaccato a Pescia. Il rancio era una schifezza: brodo che sembrava acqua e pasta che sembrava colla. Allora, un-giorno, sapete cosa faccio? Gioco all'equivoco, sissignori, gioco. A Pescia, dico, chi mi conosce? Vado dal barbiere, mi faccio fare la tonsura come un sacerdote e corro in trattoria.
Là ci stava un amico mio al quale avevo già raccontato tutto. "Buonasera, reverendo", mi dice,"si accomodi, si accomodi. Vedrà che qui si trova bene. Ho già pensato io a raccomandarla al padrone". Mangiai, infatti, benissimo, e mi fecero anche uno sconto per riguardo al pastore d'anime. Andai avanti così per un pezzo, poi un giorno arrivò un cappellano militare (vero) e successe un quarantotto.
Come Dio volle, anche la "ferma" ebbe termine, e io potei finalmente avvicinarmi a quel teatro che, ancora ragazzo, mi aveva affascinato. La mia famiglia, intanto, si era trasferita a Roma. Fu al Salone Elena, in piazza Risorgimento, che io feci la mia prima esperienza.
Ebbi subito successo e, quindici giorni dopo, la prima paga: due soldi al giorno. Questo mi incoraggiò, due settimane più tardi, a chiedere un piccolo aumento. Pioveva forte, quella sera, ed ero fradicio da capo a piedi. "Signor Capece", gli dissi, "mi basterebbe una lira per settimana: almeno i soldi per tornare a casa con il tram. Perché a piedi non ce la faccio più, andata e ritorno". "Andate un po' a far del bene alla gente!", brontolò Capece. E mi indicò la porta.
Erano, appunto, le macchiette di De Marco che io conoscevo a memoria: soprattuto Il bel Ciccillo e Il Paraguay. Le ripassai per bene davanti a uno specchio e mi presentai a Jovinelli. Non era il momento più propizio perché don Peppe aveva appena finito di scaraventare fuori dal suo ufficio un attore che era arrivato tardi alle prove, tuttavia il colloquio fu abbastanza cordiale, molto più di quanto potessi sperare.
Poi c'è stata una guerra di mezzo e i ragazzini di allora sono diventati padri di famiglia, ma riviste come Volumineide, Che ti sei messo in testa? e Quando meno te l'aspetti si ricordano ancora oggi. Da allora, i miei film si sono susseguiti a ritmo sempre più vorticoso. Non era difficile il caso che ne girassero due contemporaneamente, la qual cosa mi costringeva a spostarmi rapidamente - in macchina e già truccato - da un teatro di posa all'altro. Nei giorni scorsi ho finito di lavorare al mio settantacinquesimo film che dovrebbe allinearsi ai migliori da me interpretati: si intitola Risate di gioia e, per diverse ragioni, costituisce una gradevole esperienza di lavoro. Un'altra ragione non meno importante (oltre a un cast di attori simpatici, a cominciare da Edy Vessel che è molto bella e che ha molti atouts da giocare) è costituita da quell'intelligente regista che è Mario Monicelli con il quale ho interpretato Guardie e ladri, e cioè uno dei miei film più riusciti. E adesso, se non vi dispiace, vogliamo parlare di Totò compositore? Da buon napoletano, perchè è una cosa che abbiamo nel sangue. A Napoli anche gli analfabeti sono in grado di improvvisare. Non capisco piuttosto perché la RAI abbia trasmesso per tanto tempo le mie canzoni soltanto alle quattro dopo mezzanotte, per i camionisti e per quelli che soffrono d'insonnia. Cioè no, lo capisco benissimo. Dovrei, ora, aggiungere qualcosa a proposito della mia vita privata, ma è un argomento che non desidero toccare. Dicono che sono troppo riservato, ma credo che un attore - quando esce da un palcoscenico o da un teatro di posa - debba appartenere soltanto a se stesso. Vedendomi in palcoscenico o sullo schermo, la gente è portata ad immaginarmi molto diverso da come sono nella realtà di tutti i giorni: un uomo semplice, credetemi, che concede ben poco a se stesso per divertire gli altri. E poco importa se, qualche volta, "gli altri" non capiscono. Ne volete un esempio? Abitavo in una bella casa di viale Parioli dove, tra gli inquilini, c'erano anche un cardinale e un ambasciatore. Ogni volta che m'incontrava, il portiere mi salutava con tanto di "eccellenza" facendomi profondissimi inchini. Poi, una sera, si fece coraggio. "So che lei", mi disse, "è un attore molto applaudito. Mi piacerebbe sentirla una volta". Gli procurai due posti per quella sera stessa. Il giorno dopo, incontrandomi, non soltanto non mi salutò, ma mi rise in faccia. Da allora, non fui più per lui una persona rispettabile, ma un saltimbanco. Ho sempre lavorato molto, e ancora oggi - nonostante i disturbi alla vista - non mi risparmio. Anche quando potevo servirmi di un Galdieri in piena forma, gli sketch più sostanziosi li elaboravo pazientemente sino al momento in cui li sentivo "su misura": come facevano, del resto, Raffaele Viviani e Ettore Petrolini. Più di una volta, camminando per la strada, mi sono sorpreso a seguire qualche tipo stravagante, osservandone minutamente i gesti e assimilandone il modo di camminare, di muoversi, di salutare e di gesticolare. "Ma come? Hai fatto barone il tuo cane e cavaliere il tuo pappagallo?", mi disse un giorno Lucy D'Albert, la più "completa" tra le soubrettes che hanno lavorato al mio fianco. "E con questo?", le risposi. "A prescindere dal fatto che Caligola fece senatore il suo cavallo, si tratta di cariche onorifiche puramente onorarie che hanno valore soltanto entro il perimetro della mia abitazione. E poi, credimi, sia l'uno che l'altro se lo meritavano proprio". E così, credo di avervi detto tutto, meno la data di nascita. Sono nato un quindici febbraio: acquariano, porta buono. Ma l'anno, che importanza può avere? Un attore non lo deve sapere mai. L'importante è sentirsi giovani. E io mi sento giovane e sempre pronto - se dovesse presentarsi una occasione favorevole - a tornare ancora una volta sul palcoscenico e a togliere dal "cassetto dei ricordi" quel piumetto che un bersagliere del Terzo mi gettò una sera dal loggione ai tempi di Eravamo sette sorelle. Quel piumetto che diede vita alla mia più felice e sfrenata improvvisazione.
La collaborazione con Galdieri riprese nel dopoguerra: ricordo alcune riviste come Bada che ti mangio e C'era una volta il mondo... dove uno sketch - quello del vagone letto - è diventato famoso.
Da vent'anni e più a questa parte, la mia attività teatrale è andata avanti di pari passo con quella cinematografica, anche se qualcuno dice che Totò attore cinematografico ha finito con l'uccidere, poco a poco, Totò attore di rivista. Vogliamo dare una occhiata alle cifre? Il mio primo film è del '36. Fermo con le mani
Tanto per cominciare, vi dirò che ha lavorato con me Anna Magnani (biondissima per l'occasione):e quando mi preparavo per girare e sentivo nella roulotte vicino alla mia - il film è fatto in gran parte di esterni- la voce di Nannarella mi sembrava di essere tornato ai tempi di Volumineide.
Le poesie che preferisco le ho scritte nel mio dialetto e hanno un'ispirazione fondamentalmente triste che si ripete come un leit-motiv. Molte poesie, che io stesso ho musicato, hanno trovato la strada del successo: di queste, la più nota è Malafemmena.
Ricordo che a Firenze, dopo dieci giorni di esauriti, fui riconfermato con un aumento di paga da 75 a 200 lire. Ero con la compagnia Maresca: una sera, il capocomico mi pregò di stare fermo quando non dovevo recitare perché il pubblico rideva e si distraeva a danno degli altri interpreti. La sera dopo, lo incontrai poco prima che si iniziasse lo spettacolo.
"L'avevo pregata", mi disse, "di non monopolizzare il palcoscenico quando non è di scena. è vero che lei, ieri sera, non si muoveva, ma soltanto teoricamente: perchè anche stando fermo, era tutto un movimento. E il pubblico rideva più di prima. Quindi, faccia quello che le pare".
Se fossi uno studioso di psicoanalisi, dovrei definire questa mania come il "complesso dei fratelli siamesi". Infatti, non appena noto un tipo che mi colpisce per alcune caratteristiche, mi sembra che un fluido mi leghi a lui, ragion per cui divento l'altra parte dell'individuo che osservo, costituendo - con lui - un'ideale coppia di gemelli.
Da ragazzo mi chiamavano proprio per questo " 'o spione".
Hanno scritto di me che sono "la più autentica eredità della risata", eccetera eccetera. Non sta a me giudicare. Non ho inventato il taschino dietro la schiena come Rascel, o il ricciolo sulla fronte come Macario. Quei panni che mi cascavano addosso come se fossi stato un manichino e che mi sono serviti come "costume", altro non erano che la continuazione dell'unico abito di scena, sempre più logoro, che portavo nei primi anni di teatro: un tight troppo largo, un paio di pantaloni "a saltafossi", una vecchia bombetta e una stringa da scarpe per cravatta.
Il cane e il pappagallo costituiscono, infatti, gli unici miei hobbies, se così si può dire. Non vado a pescare e non raccolgo francobolli. In quanto a scrivere versi e canzoni, quello non è un hobby, ma una necessità. "Siamo uomino o caporali?"(introduzione al libro omonimo)
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